
L'album di Paolo Conte "900"



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Dopo
"Parole d'amore scritte a macchina" (1990), album curiosamente
'minimalista' e casalingo, privo com'è dei fulminanti andirivieni
tra misteriosi luoghi esotici e forse ancora più misteriosi paesaggi
di provincia, Conte sembra rimettere in funzione il suo 'Aguaplano', per
il suo disco del 1992, '900': una nuova galleria di viaggi nello spazio
e nel tempo, a cominciare dal brano che dà il titolo all'album,
'Novecento'.
Un pezzo di mirabile equilibrismo, sia dal punto di vista del testo
("Lassù, sul palcoscenico pleistocenico, sull'altopiano preistorico,
prima vulcanico e poi galvanico, dicono che sia tutta una vaniglia, una
grande battaglia, una forte meraviglia") che dal punto di vista musicale
- un valzer nel quale sembra che tentino di introdursi di soppiatto anche
del jazz e persino suggestioni di rap (genere che Conte non ama, ma ammette
di aver ascoltato, rigorosamente da musicisti americani). Dimenticate
le vaghe sperimentazioni elettroniche del disco precedente, Conte torna
alle sonorità che gli sono più congeniali e affida l'esecuzione
del brano a 16 "suonatori" (sua definizione), curando personalmente
gli arrangiamenti.
Il brano narra del mattino in cui sul mondo comincia a soffiare l'aria
del Ventesimo secolo: un'alba segreta su misteriosi altopiani preistorici,
abitati da donne piegate su vecchie macchine da cucire e ragazzi che guardano
stupiti i primi aerei. "È un paesaggio primitivo, un altopiano
pleistocenico. Nel pleistocene erano apparsi per la prima volta i cavalli.
In questo paesaggio primitivo ho immaginato che si accendessero delle
piccole scintille di elettricità...Ed è anche un mattino
americano: scegliendo la musica, il mio punto di riferimento è
sempre stato l'America, e l'America vive di Novecento", ha spiegato
il cantautore astigiano in un'intervista a Paolo Di Stefano del Corriere
della Sera. "L'attualità non mi interessa. Il Novecento non
è quello che ho sotto gli occhi, è quello che risuona dentro
di me. Nel mio piccolo, ho sempre cercato di inseguire lo spirito di questo
secolo. Il Novecento è qualcosa di impalpabile, ha tutto un suo
gusto ambiguo, che gli dà un fascino speciale. E' un secolo molto
difficile, perché pieno di equivoci
Non avrei voluto vivere
in un secolo diverso da questo, anche se è un secolo che idealmente
non sarebbe il mio: ogni volta che suono il pianoforte andando per fantasmi,
mi vien da dire che forse starei meglio nell'Ottocento, secolo sicuramente
più pianistico e più libertario. Il Novecento è stato
un secolo terribile, con due guerre mondiali: un secolo equivoco, ma interessante,
in cui abitare è stato forse un privilegio, anche se oggi non riusciamo
ancora a capirlo".
Per quanto riguarda pubblico e critica, il brano diviene rapidamente
uno dei favoriti dei numerosi estimatori di Conte. La critica viceversa
si divide. Non è favorevole Mario Luzzatto Fegiz del Corriere della
Sera: "Il brano è la conferma del tunnel in cui l'avvocato
di Asti è entrato: una strana canzone, che racconta sensazioni
a cavallo fra due secoli, in un paesaggio descritto con versi come 'lassù
sul palcoscenico pleistocenico sull'altipiano preistorico'. Ahimè,
vengono in mente i deliri antiverbali del paroliere di Battisti, Pasquale
Panella, o recenti exploit di Baglioni (le 'insolite insolute insalate').
(
) Ora tutto è diventato labirinto psicologico, ermetismo,
ma soprattutto manierismo estetico ('Galvanizzato il vento spalancava
tutti i garages e liberava grossi motori entusiasmati')". Plaude
invece Gino Castaldo, critico de La Repubblica, che fa notare come lo
stile di Conte nell'intero album "è caricaturale, indiretto,
deformante, obliquo, com'è nelle sue corde; eppure già nella
canzone d'apertura, 'Novecento', (vezzosamente scritta in lettere, al
contrario del titolo dell'album), si coglie una visione fugace, quasi
spiata di sguincio, di questo scorcio di fine millennio, che si apre con
'dicono che quei cieli siano adatti ai cavalli e che le strade siano polvere
di palcoscenico...' e poi passa in rivista tra calembour, allitterazioni
e fotografie antiche la nostra cultura divisa tra 'spolverini di percalle'
e 'grossi entusiasmanti motori', sul ritmo di un avvolgente valzer che
tutto travolge e tutto raccoglie in un vortice di sentimenti epocali".
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