Dopo
il Sanremo "autarchico" del 1956, disertato dai divi
della canzone a causa del braccio di ferro tra case discografiche
e Rai, l'edizione del 1957 vede il ritorno degli interpreti più
amati - e più chiacchierati.
In particolare, Gino Latilla e Carla Boni fanno parlare di sé
perché, come scrive Gigi Vesigna nel libro "Sanremo
è sempre Sanremo" (Sperling & Kupfer), "I
due ormai giocano a carte scoperte e non nascondono più
l'amore che li lega. Il circo sanremese, malignamente, definisce
questo amore una trovata pubblicitaria e qualcuno aggiunge persino
che Carla in realtà trova Gino odioso. I pettegolezzi si
azzerano quando, pochi mesi dopo, i due si sposano, ma nonostante
la nascita di due figli il matrimonio non si rivela felice e finisce
con una separazione".
Latilla peraltro si trova anche in rotta di collisione con Claudio
Villa: l'interprete di 'Vecchio scarpone' sostiene che il Reuccio,
che appartiene alla sua stessa casa discografica, gli ha soffiato
'Corde della mia chitarra', canzone risultata poi vincitrice.
Latilla si dovrà accontentare del terzo posto di 'Scusami'.
Ma in realtà la canzone più famosa uscita da Sanremo
'67 risulterà un brano interpretato da lui e dalla Boni:
'Casetta in Canadà'.
Il brano porta la firma di due maestri del 'nonsense': Vittorio
Mascheroni e Mario Panzeri, che nel '52 avevano portato al Festival
'Papaveri e papere', altrettanto proverbiale ed altrettanto bersagliata
dai critici. Per fare un paio di esempi, ecco Gianni Borgna, in
'La grande evasione' (Savelli): "La canzone narra, a tempo
di mambo, di un tal Martino che costruisce la sua casetta, e di
un tal Pinco Panco che per dispetto la incendia, ed incendia tutte
le altre case che con infinito ottimismo e altrettanta pazienza
Martino continua imperterrito a costruire. Dove Ë evidente
non solo l'elogio della positività e del decoro piccolo
borghesi (nell'aspirazione a una casa tutta per sè, con
fiori, pesciolini rossi ecc.) ma soprattutto l'adesione senza
riserve ai principi dominanti: lavorare sodo senza discutere,
tollerare illimitatamente il sopruso, e via di questo passo".
Ed ecco Emilio Jona, nel libro che ha formato una generazione
di critici musicali ('Le canzoni della cattiva coscienza', Bompiani,
1964): "Quella dell'uomo protagonista della 'Casetta in Canadà'
è la moderna trascrizione del mito di Sisifo. Inoltre il
fatto che vi siano delle ragazze disposte ad ammirare la sua paziente
quanto ottusa opera di riscostruzione serve a rassicurarlo su
ciò che più gli importa: sulla sua efficienza sessuale".
Con questo brano Mario Panzeri parve interrompere il suo rapporto
con quelle canzoni disimpegnate caratterizzate da una facile presa
sugli ascoltatori ma da una difficile interpretazione (vedi anche
le schede di 'Maramao perché sei morto', 'Pippo non lo
sa', 'Papaveri e papere'). Gli anni '60 lo videro firmare sia
l'apologia della ragazza acqua e sapone ('Non ho l'età')
che il suo contrario, ovvero il ringhio del beat ('Nessuno mi
può giudicare'). Solo dieci anni dopo, a mo' di sfida,
confezionò per l'allora criticatissima Orietta Berti la
sua ultima marcetta, la canzone da fischiettare "definitiva":
'Fin che la barca va'.
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